Non sono soltanto i calci di rigore a fare paura, quando devi tirarli per la prima volta. E non soltanto i giocatori si vedono dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. Se sei un maratoneta, però, sai che la partita dovrai vincerla da solo, e che da solo dovrai trovare il coraggio per arrivare al traguardo. Specie se non sei un runner qualunque e tutti hanno ancora nella mente la volata pazzesca con cui hai vinto i diecimila metri ai Campionati Europei. Yeman Crippa, aspettando il 2 aprile che segnerà il suo esordio sulla distanza, racconta con ottimismo la sua marcia di avvicinamento alla maratona.
"Trovo sempre qualcuno che mi parla del trentacinquesimo chilometro – dice –, della crisi che arriverà, di chissà quali altri problemi che dovrò scoprire sulla mia pelle. Ma se non ascolto gli altri, se ragiono da solo, penso che quella di Milano sarà una gara come tutte le altre".

Yeman, come definiresti questa tua prima maratona? Una scommessa? Un’impresa? Una sfida?
"Soltanto un test per capire se fra due o tre anni i 42 chilometri potranno essere la mia gara. Per capire se a livello mondiale potrò essere più competitivo sulla strada che in pista. Renato Canova, che di atleti ne ha visti tanti, mi ha detto che dalla quarta maratona in poi puoi capire quello che vali veramente. La prima volta è importante, ma non è definitiva. Se proprio devo dare una definizione direi un investimento, che forse sta già cominciando a pagare".

In che senso?
"Non sto correndo molto più di prima, sono sui 180 chilometri alla settimana. Però ho fatto un lungo da 40 chilometri, e questo ha cambiato il mio atteggiamento. L’anno scorso avrei detto di no e lo avrei fatto controvoglia. Adesso quando parto a 3’25” mi sembra di andare facile. La mia testa è cambiata, e questo mi aiuterà anche per la pista".

Sono tanti 40 chilometri per un lungo. In genere ci si ferma a 35-37. O no?
"È stata un’idea del mio allenatore. Voleva che stessi sulle gambe per più di due ore. Serve per la testa, dice".

Che cosa si pensa, quando si corre così tanto?
"A quei ritmi non si pensa, non c’è il tempo. Me lo hanno chiesto anche quando ho fatto il record della mezza maratona. 'Che cosa avevi in mente?'. Mi sono sforzato per tirare fuori qualcosa da raccontare. Zero, non mi è venuto niente".

Buttarsi su una gara nuova, quando si sta sotto i riflettori, è comunque un modo per uscire dalla comfort zone. Davvero non sei preoccupato neanche un po’?
"Vuoi sapere se la maratona mi fa paura? Direi di no, non tanta almeno. La mia idea è di correre ancora in pista quest’estate e l’anno prossimo. Questo è soltanto un piccolo cambiamento: in poco tempo tornerò a fare quello che facevo prima".

C’è qualcosa che ti fa paura?
"Tante cose, così su due piedi non saprei…".

La fatica?
"A volte sì, a volte un po’ meno. Ma quando fai uno sport come il nostro sai già a che cosa vai incontro: il dolore, il sacrificio, la fatica appunto. Io vivo per correre, ma non sempre esco con il sorriso. Ci sono giorni in cui devi fare l’allenamento in cui sei più debole, e magari lo devi fare con i keniani. Beh, quel giorno tanto tranquillo non sei…".

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Giovanni Moioli

Con chi ti alleni quando vai in Kenya?
"Il più forte è Kibiwott Kandie, il ragazzo che ha il secondo tempo al mondo sulla mezza maratona. È un team di professionisti, più o meno sempre quello, con poche novità. Gli anni scorsi c’era più movimento: agli allenamenti organizzati nel villaggio si presentava di tutto. Il martedì e il giovedì facevamo le variazioni di ritmo e arrivavano anche 300 persone: gente che partiva fortissimo e magari dopo un paio di chilometri si fermava. Alla fine arrivavamo in venti".

Come vive un ragazzo europeo nei camp della Rift Valley? È davvero così dura come raccontano?
"Per i professionisti non è tanto diverso da qui: ci sono la fisioterapia, gli integratori, tutto ciò che serve per allenarsi bene. Per i ragazzi del posto che stanno cercando di guadagnarsi da vivere con l’atletica è pesante: hanno mille problemi, le scarpe, il materiale, la pista. A Iten c’è un impianto, ma per entrarci noi europei dobbiamo pagare 15 dollari. Per i keniani costa meno, ma molti quei soldi non li hanno e restano fuori. E parliamo di gente che qui starebbe nei primi dieci, atleti che non riescono a venire in Europa perché nessuno gli paga il biglietto. Difficile emergere, se non sei davvero fortissimo".

Jakob Ingebrigtsen dice che si allena come un professionista da quando era bambino. A te la vita ha dato un’infanzia diversa: l’orfanotrofio ad Addis Abeba, l’adozione, il trasferimento in Italia. Ci pensi mai, quando te lo trovi davanti?
"Beh, da quel punto di vista sono stato fortunato anch’io. Quando cresci per strada in Etiopia corri tutto il giorno… Se fossi nato in Europa avrei cominciato a correre da bambino e forse mi sarei già stufato. Succede spesso quando ti dai troppa importanza fin da bambino: non corri più per divertirti, ma per fare i risultati. Spesso perché hai un genitore che ha fatto atletica ad alto livello e che vorrebbe che tu diventassi meglio di lui. Jakob e qualcun altro sono diventati campioni, ma chissà quanti altri si sono persi per strada".

"L’Italia mi è subito sembrata un posto da sballo". Lo hai detto a 19 anni. Hai cambiato idea?
"
Mi ricordo ancora l’aereo, i nonni che mi aspettavano con una macchinina telecomandata. Vedevo che tutti avevano un’automobile quando in Etiopia non l’aveva nessuno. La casa era grande e c’era il giardino. Mi sembrava di essere in paradiso. Ora vedo che tante persone hanno difficoltà, qui come in tutto il mondo. Con gli occhi da adulto mi accorgo che alcuni ragazzi hanno situazioni difficili, ma continuo a pensare che l’Italia sia il Paese che mi ha dato tutto. Sono contento di vivere qui".

Paola Egonu, qualche settimana fa, ha fatto una dichiarazione pesante e dolorosa: "So già che se mio figlio fosse di pelle nera, vivrebbe tutto lo schifo che ho vissuto io". Che ne pensi?
"Sono parole che nascono dalle proprie esperienze personali, ma non è così per tutti. Io dico che sarei fiero di avere un figlio nero, o mulatto, o bianco. Ho avuto la fortuna di non vivere mai situazioni che fanno parlare così. E se avrò figli, mi auguro che per loro
sia lo stesso".

Non ha mai avuto problemi? Neppure quando sei diventato famoso con la tua vittoria agli Europei?
"A parte qualche frase sui social, scritta da gente che dal vivo non avrebbe mai il coraggio di dire certe cose, direi di no. So che questi problemi esistono, e mi spiace per chi li ha avuti. Ma a me non è mai capitato".

Però due politici della tua Provincia hanno celebrato le tue medaglie di Monaco dicendo di te che “vivi in Trentino” come se fossi uno straniero emigrato. Ti sembra normale?
"Ma quella è stata una cosa ridicola. Figurati che chi ha scritto quella cosa è venuto alla mia festa di compleanno. Sono piccolezze, almeno spero che lo siano. Non posso escludere che ci sia qualcuno che mi sorride e quando mi giro pensa cose razziste".

Come pensi che sarà Yeman Crippa a carriera finita? Pensi che continuerai a correre per passione?
"Non so, mi piacerebbe giocare a calcio, magari a calcetto: trovare una squadretta di scarsi come me e tornare alla mia passione da bambino, che ho lasciato quando ho scelto l’atletica. Mi vedo con una bella famiglia, probabilmente fuori dallo sport. Vorrei fare l’imprenditore, aprire un bar insieme ai miei fratelli e cercare qualcosa di diverso. Fare l’allenatore non fa per me".

Perché?
"Mi alleno tanto, ma non cerco di imparare, perché si fa una cosa piuttosto che un’altra. Non so se potrei insegnare qualcosa ai ragazzini".

Com’è il rapporto con Massimo Pegoretti, il tuo allenatore?
"Fiducia totale. Fin dall’inizio è stato come un fratello maggiore. È l’uomo più tranquillo del mondo, e questa è la cosa che mi piace di più. Anche quando una gara va male lui riesce a farmi pensare a quello che abbiamo costruito. E che rimane anche dopo le giornate no, che prima o poi arrivano sempre".

Non avete mai avuto momenti di tensione?
"Soltanto una volta, quando avevo avuto una proposta dalla Nike per andare a Eugene ad allenarmi con il gruppo di Alberto Salazar, qualche mese prima che scoppiasse la questione del doping. Massimo voleva che restassi a Trento, ma la tentazione di andare dove c’era il top dell’atletica mondiale c’era. Per fortuna sono rimasto".

Qualche tempo fa hai detto: "Ci si dopa per fame o per ignoranza"…
"Qui ho cambiato idea".

Posso chiederti come mai?
"Perché c’è fame e fame. In Africa c’è la fame vera, quella di chi non ha da mangiare. Ragazzi che pensano: 'Corro, ma con le mie forze non riesco ad uscire dal Kenya, magari se imbroglio ho più possibilità. Magari mi beccano, ma due o tre gare in Europa le faccio, vinco duemila euro e qui bastano per un anno a me e alla mia famiglia'. Da noi invece c’è la fame di soldi: 'Ne ho già, ma ne voglio di più. E li voglio facili'. Non senza fatica, perché comunque devi allenarti e correre, ma facili sì".

E l’ignoranza?
"Quella c’è sempre, perché ormai ti beccano sempre. Chi bara dovrebbe saperlo".

Ci sono stati anche un paio di casi in Italia. Come hai reagito, quando è uscita la notizia?
"Su uno qualche piccolo sospetto lo avevo, sull’altro meno. Ma sono atleti che si allenavano con te, con cui andavi magari a berti una birra: resti incredulo, ci resti male".

C’è il rischio che questi casi finiscano per sporcare tutto il movimento, specie adesso che gli azzurri sono tornati a vincere?
"Chi si avvicina all’atletica solo per guardare le Olimpiadi o gli Europei non è poi così interessato alle vicende di doping. O magari crede alle scuse di chi viene scoperto: un medicinale preso per sbaglio, un integratore. È all’estero che possono pensare male: se sono dopati due italiani possono esserlo tutti. E non è piacevole".

Su di te non ci sono mai stati dubbi.
"Per il doping mai, ci mancherebbe. Ma quando ero nelle categorie giovanili qualcuno ha discusso sulla mia età. In Etiopia le anagrafi sono quello che sono. Comunque io sono davvero del ‘96".

Come vivi la visibilità? Gli eventi, la moda, il red carpet alla Mostra di Venezia. A vederla da fuori sembri perfettamente a tuo agio. È così?
"Non sempre: a volte sono cose impegnative. Correre è molto più facile. Dopo gli Europei c’erano troppi inviti, troppe interviste. La tentazione di dire di no a tutti l’ho avuta. Ma non si può, non fa bene né a me né a chi mi cerca: bisogna battere il ferro finché è caldo. La memoria dei risultati è corta, svanisce in fretta".

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Giovanni Moioli

In uno di questi eventi eri sul palco con i tuoi grandi predecessori: Cova, Mei, Antibo. Dietro ai sorrisi è nata una polemica. Che cosa è successo?
"So che tra loro non sono mai andati troppo d’accordo, eppure sembravano alleati contro di me. 'E tu non vai mai avanti a fare l’andatura'. 'E noi non avevamo le scarpe di nuova generazione'. 'E noi non avevamo gli africani a tirarci le gare'. È vero non c’erano tanti africani, ma non sarà anche per questo che vincevano le medaglie? Ai Mondiali c’erano quasi solo atleti bianchi: questo non lo dicono".

Hai citato le scarpe. Che cosa si prova ad avere ai piedi l’ultimo prodotto della ricerca?
"La tecnologia non ti fa diventare forte, ma sapere di avere il meglio è una sicurezza in più. E poi aiutano, non c’è dubbio: il recupero post gara è più veloce, non hai più i soliti dolorini e riesci a fare un altro allenamento. Sono in spinta ogni volta che appoggi, sono morbide quando atterri. A Milano userò le adidas Adios Pro 3. Non riuscirei più a mettere le scarpe leggere di prima: mi sentirei troppo basso, con i piedi che non rispondono. In questi giorni sto anche correndo con le nuovissime adizero SL. Sono scarpe molto reattive e molto comode, adatte a tutti i tipi di runner, anche a quelli che come me pronano, perché essendo più basse della versione precedente controllano meglio l’appoggio. Le trovo confortevoli per correre a ritmo lento, ma se spingo, se ad esempio faccio degli allunghi, sento di avere ai piedi una scarpa che posso usare anche in gara a ritmi più veloci. Inoltre, dettaglio non trascurabile, mi piacciono molto anche esteticamente".

È cambiato anche il tuo modo di correre?
"Secondo me sì. Sicuramente l’ampiezza del passo è aumentata".

Con Jacobs e Tamberi qualche mese fa hai incontrato i ragazzi delle scuole. Pensi che i vostri successi possano portare i giovanissimi verso l’atletica?
"Abbiamo contribuito anche noi. Ci sono molti bambini che magari facevano atletica senza troppa convinzione, e che adesso sono più appassionati che mai. Altri che si sono incuriositi e hanno chiesto di cominciare".

Ti fa effetto pensare che c’è in giro qualche bambino che dice: "Io voglio diventare Yeman Crippa"?
"Penso che ce ne siano tanti che vogliono diventare Marcell Jacobs. La sua è una specialità più istintiva, colpisce di più. È successo anche a me: da bambino il mio idolo è stato Usain Bolt".

Ricordi la tua prima gara?
"Sì. L’ho vinta".

Racconta…
"In quinta elementare ho fatto la garetta della scuola. Sono arrivato primo, così il mio professore, Marco Borsari, che poi è diventato mio allenatore, mi ha portato ai Campionati Italiani di corsa in montagna, categoria ragazzi. Mio papà era preoccupato: io volevo vincere sempre, se perdevo le partitelle in giardino con i fratelli mi mettevo a piangere. 'Guarda che lì ci sono ragazzi che corrono davvero', diceva. Quando sono tornato con
la coppa, non voleva crederci».

Ce n’era abbastanza per cambiare idolo. Hai messo Bolt in un cassetto?
"Sì, per anni ho avuto Mo Farah come modello. Era impossibile scegliere un altro: faceva la volata e vinceva sempre, sono cresciuto con le sue immagini in testa. Poi le cose sono cambiate, troppi dubbi, troppi sospetti. Oggi se proprio devo fare un nome direi Eliud Kipchoge, ma forse non è più tempo di idoli".

Sinceramente, che cosa pensi di Kipchoge?
"È un super professionista. Fare la vita che sta facendo lui, nei camp, lontano dalla famiglia, alla sua età è molto difficile. Specie quando non sei più un giovane che deve investire sulla carriera, ma hai già fatto tutto quello che potevi fare. Hai soldi e medaglie, eppure vivi nella semplicità: ti pulisci la stanza, mangi con gli altri. Non riesco a capire i risultati che sta facendo adesso. Ha 38 anni, ma più invecchia e più migliora. Lo ammiro, ma non capisco".