Momenti unici, impossibili da dimenticare. L'atletica italiana è costellata da istantanee che restano e resteranno impresse nell'imperituro dello sport. Oggi abbiamo provato a mettere ordine, pensando 10 momenti indimenticabili della nostra atletica degli ultimi 25 anni.

I momenti indimenticabili dell'atletica italiana dal 2000 a oggi

Giuseppe Gibilisco Mondiali salto con l'asta

giuseppe gibilisco of italy celebrates after the men's pole vault final pinterest
Andy Lyons//Getty Images

Cadere, rialzarsi e volare. Tutto condito con un po’ di sana pazzia. La vittoria del coraggio, di chi si gioca l’all in quando non ha più niente da perdere, ma vuole solo vincere. Parigi 2003, Campionati Mondiali. La finale di salto con l’asta si mette male per Giuseppe Gibilisco, siciliano di 24 anni, talento giovanile in cerca dell’affermazione internazionale.

La finale dei Mondiali di Parigi può essere una buona occasione, ma a 5.75 le cose si mettono male: due errori, l’eliminazione sembra cosa fatta. Non per lui, uomo volante che poi seguirà anche la strada del bob. Gli resta un solo salto. Scende in pedana, ma fa alzare l’asticella a 5.80. Dentro o fuori. Rincorsa e salto: stavolta è buono. Salvata la gara, chi lo ferma più! Al primo tentativo supera 5.85 e poi anche 5.90, due volte record italiano. Gli avversari non reggono il ritmo, l’oro si colora di azzurro. Chi sogna in grande, vola in alto.


Marcell Jacobs Olimpiadi 100 metri

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Qual è lo sport più diffuso? Googlate le statistiche. Se ci pensi però, c’è una disciplina dove potenzialmente ci sono circa 7 miliardi di partecipanti. Quale? I 100 metri. Al netto di particolari situazioni, tutti al mondo possono sfidarsi sui 100 metri. È la gara più difficile: ovunque ti giri, c’è un avversario. Sarà per questo che la finale olimpica dei 100 metri è l’evento sportivo più importante, quello della leggenda, quello più semplice e più difficile di tutti. Marcell Jacobs ha fatto l’impresa.

L’oro alle Olimpiadi di Tokyo nella finale dei 100 metri è forse l’impresa sportiva più grande mai fatta da un italiano. Non me ne vogliano tutti i grandi campioni degli altri sport o dell’atletica. Concentrare una vita sportiva in meno di 10 secondi, è pura poesia, come “m’illumino d’immenso”. Correre per 9 secondi e 80 centesimi in 44 passi e mezzo con una precisione da ingegnere, è come andare sulla luna. L’oro di Jacobs è immenso, ma forse non ce ne siamo ancora resi conto.


Filippo Tortu primo italiani sotto i 10 secondi nei 100 metri

Lì, inamovibile, dall’alto delle sue prestazioni, guarda tutti e incute timore, con l’austerità della sua vita e i suoi muscoli pieni di fatica sovrumana. Dal 1979, l’anno dei record, la figura di Pietro Mennea è ancora la misura della velocità italiana, anche dopo la sua prematura e dolorosa scomparsa nel primo giorno di primavera del 2013. Non solo quel leggendario 19”72, record del modo dei 200 metri. Prima del mezzo giro, a Città del Messico Mennea si prese anche il record italiano dei 100 metri con 10”01 (allora, anche record europeo). Dopo, generazioni di velocisti hanno sfidato quel tempo, talvolta avvicinandolo più per caso, ma mai messo seriamente in pericolo. Mentre il mondo diventava sempre più veloce con Usain Bolt, il film della velocità azzurra si fermava all’improvviso sul frame del traguardo messicano.

Tutto questo è durato per quasi 40 anni. Chi mai avrebbe scalzato Pietro da Barletta dal trono delle velocità azzurra? Un messia sì, quello stavamo aspettando. Esattamente un anno dopo la scomparsa di Pietro Mennea, nel 2014 inizia a mettersi in luce un ragazzino serio ed educato, leggero ma dotato di due piedi micidiali che si avvinghiano alla pista come un’aquila. Si chiama Filippo Tortu. Non sappiamo se sia il messia, certo è un bimbo prodigio. Allenato da papà Salvino, Filippo brucia le tappe riscrivendo tutti i record italiani giovanili dei 100 e 200 metri. A 18 anni è campione italiano assoluto, da juniores vince l’oro europeo e l’argento mondiale e corre i 100 metri in 10”15. È più che una certezza, ma sarà lui il prescelto? Nella primavera del 2018, se avessi incontrato papà Salvino, Tortu senior vi avrebbe candidamente detto che l’obiettivo della stagione era di andare sotto i 10 secondi. Gli avresti creduto? A maggio Filippo Tortu corre i 100 metri a Savona in 10”03 e poi in 10”04 al Golden Gala di Roma. Mai visto un italiano così regolare in soli 10 giorni, neppure Mennea.

C’è aria di impresa. Per farla, si vola a Madrid. È il 22 giugno. Filippo Tortu ha compiuto 20 anni da sette giorni, ma sembra già un veterano. Corre la batteria in 10”04, di nuovo. In finale, a fare il ritmo c’è il cinese Su Bingtian, il più grande partente al mondo. Vince lui in 9”91, ma subito dietro arriva l’azzurro che corre in 9”99. Si può fare! Anzi, è stato fatto. Anche noi italiani sappiamo correre in meno di 10 secondi. Ci siamo anche noi. Quel 22 giugno è la svolta dell’atletica italiana. Mennea è superato, basta confronti con gli anni ’70, ’80 e ’90. È l’inizio di una nuova era. Poi arriverà l’Olimpiade di Tokyo con Marcell Jacobs, ma l’anno zero è quel 22 giugno 2018. Firmato, Filippo Tortu.


Coppa Europa prima vittoria Italia

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Tu inventi un trofeo, una manifestazione sportiva, ma poi ci metti quasi 60 anni per vincerlo. Come la prendi? Pensala come vuoi, ma la realtà è proprio questa. Nel 1965 l’italiano Bruno Zauli, illuminato dirigente sportivo, inventa una manifestazione di atletica leggera per squadre nazionali: la Coppa Europa. La cadenza varia da biennale ad annuale, poi dal 2009 prende il nome di Campionati Europei a squadre, ogni due anni, ma la sostanza non cambia. Un certo numero di nazioni si sfida schierando un atleta per ogni gara in programma, la classifica finale è la somma dei punti conquistati da ciascuno. Formula facile, ma vincere non è altrettanto.

Tutti i più grandi campioni azzurri vi hanno partecipato, ma la classifica finale è sempre andata a qualcun altro, dalle vecchie squadre dell’Est alla Germania, la Russia o la Polonia. E l’Italia restava a guardare, almeno fino alla sfida del 2021, quando a sorpresa gli azzurri (classifica unica uomini + donne) finiscono secondi alle spalle della Polonia per soli due punti e mezzo. Vuoi vedere che l’impresa è possibile? Nel 2023 si torna a gareggiare in Polonia, a Chorzów, ma stavolta la squadra organizzata dal dt Antonio La Torre è solida sotto ogni aspetto. Nella decima edizione della nuova formula, capitan Gimbo Tamberi vince l’alto con 2.29, ma ci sono altre sei vittorie azzurre con Samuele Ceccarelli nei 100, Alessandro Sibilio nei 400 ostacoli, Tobia Bocchi nel triplo, Zane Weir nel peso, Nadia Battocletti nei 5000 e Sara Fantini nel martello. Grazie anche ai tanti piazzamenti nelle prime posizioni, l’Italia domina la classifica finale con 426,5 punti, ben 24 in più dei padroni di casa campioni uscenti. Gioia in pista, festa sul podio sulle note dei Ricchi e Poveri. Tutto il mondo è paese, perché “italians do it better”.


Stefano Baldini Olimpiadi maratona

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Andy Lyons//Getty Images

“Oggi non poteva fermarmi niente, ero un rullo compressore”. Chi l’ha detto? Spoiler: il dio di Maratona. Vincere le olimpiadi, vincere l’oro ad Atene, nel Panathinaiko, lo stadio dove i giochi sono nati. Può capitare ogni cento anni, può succedere una sola volta nella vita. Nel 2004, Stefano Baldini è stato capace di mettere insieme tutte queste “impossibilità" per ritagliarsi un posto nella storia dello sport. C’è un prima e un dopo Baldini: dopo Atene, in Italia esplode il fenomeno running. Tutto è leggenda in quei 42 km. La città: Atene. L’avversario: il keniano Paul Tergat, il campione di New York, due titoli mondiali nella mezza, tre nella corsa campestre, due argenti olimpici nei 10mila. Tergat scompare presto, scappa invece la sorpresa brasiliana Vanderlei De Lima, inseguito da un Baldini scatenato.

All’improvviso, dal pubblico lungo la strada emerge un personaggio surreale. Che strano questo Cornelius Neil Horan: è un irlandese, indossa un kilt e mostra un cartello “leggete la Bibbia”. Lui però si macchia di un peccato gravissimo: si avvicina a De Lima, lo spinge fuori dalla strada e lo ferma per alcuni secondi. L’incidente è risolto subito dalla sicurezza, ma il brasiliano ne esce sconvolto. Riprende a correre (finirà terzo), ma di lì a poco Stefano Baldini lo supera a velocità doppia. “Oggi non poteva fermarmi niente”, ricordiamoci le parole dell’inizio. Nessuno lo può fermare, perché l’oro l’ha vinto prima di tutto nella sua testa, forte degli allenamenti fatti e dei tempi che gli dicevano “sei in forma smagliante”. Però non sempre bastano queste condizioni di eccellenza per riuscire a vincere. Per mettere insieme tutti i pezzi, serve anche essere Stefano Baldini.


Valeria Straneo Mondiali maratona

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Strano come una Straneo. Potrebbe essere un nuovo modo di dire, o un proverbio. Perché davvero tutto è strano nella storia sportiva di Valeria Straneo, un’atleta del genere “amatore evoluto”, come si definiva lei stessa. Eppure questa “runner come tante” è stata primatista italiana di maratona, top 8 alle Olimpiadi, argento europeo e argento mondiale. Tutto questo ottenuto dopo i 35 anni d’età, dopo due figli e… senza la milza. Forse serviva proprio una storia così surreale per stare a cuor leggero davanti a tutte nella Maratona dei Campionati Mondiali di Mosca 2013.

La mattina del 10 agosto il termometro segna 32 gradi, ma Valeria ha in testa altri numeri: 3’25” al km, chi c’è c’è, le altre… L’anno prima ha migliorato il record italiano con 2h23’44”, è finita 7° alle Olimpiadi di Londra, non è una sprovveduta. Guida il gruppo dall’inizio e fino al 20° km sono in sei. Prende un po’ di fiato, poi si rimette davanti. Al 35° km sono rimaste in due: la keniana Edna Kiplagat, la campionessa del mondo in carica, la vincitrice di New York 2010; e Valeria Straneo, la maestra laureata in lingue, la runner della porta accanto (2h41’15” nel 2009) che nel 2010 si è fatta asportare una milza malfunzionante che pesava 1,7 kg. Da quell’operazione è uscita rinata, una fenice della corsa che ha iniziato a volare raggiungendo traguardi impensabili. Oggi eccola qui, a giocarsi un titolo mondiale contro la più forte al mondo dopo aver seminato tutte le altre. Quando Kiplagat allunga e se ne va, nessuno si stupisce, neppure Valeria. Lei è la più forte, ma l’impresa è quella di Straneo, una di noi, una runner che neppure sapeva di essere così forte, che ha solamente lasciato che l’amore per la corsa la portasse in cima al mondo. Come nelle favole più belle.


Nadia Battocletti Olimpiadi 10.000 metri

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Ci vuole più coraggio o più follia per sfidare le imbattibili etiopi e keniane sui 10000 metri? Serve essere Nadia Battocletti, con il genio di chi sa leggere perfettamente le gare e la sregolatezza di chi non ha paura di buttarsi nella mischia. Così la campionessa trentina il 9 agosto 2024 ha affrontato la finale dei 10000 delle Olimpiadi di Parigi, gara zeppa di campionesse come Beatrice Chebet, Sifan Hassan, Lilian Rengeruk, Margaret Kipkemboi, Gudaf Tsegay, con Chebet e Hassan che si sono già prese l’oro e il bronzo nella finale dei 5000, con Battocletti quarta.

È una sera di pioggia a Parigi e Nadia si è fatta incerottare il polpaccio poco prima di entrare in pista. Le premesse per compiere l’impresa non sembrano eccezionali. La gara però si mette bene per Nadia: un passaggio tranquillo a metà in 15’50” e nessun dolore. All’ultimo km le migliori sono lì tutte davanti, ai 600 metri Nadia Battocletti è quarta, ma stavolta non può finire come nella finale dei 5000. La decisione è presa: si impossessa della prima corsia, non lascia rientrare nessuna e ai 200 metri si infila per lanciare una volata a tre. È un finale a velocità folle, ultimo giro in 57 secondi, l’ultimo mezzo in 27! Sull’ultimo rettilineo Chebet è al comando, Battocletti supera Kipkemboi, Hassan sembra recuperare ma è invece l’azzurra che si lancia all’inseguimento di Chebet. Sembra di risentire il “recupera, recupera” dei 200 metri olimpici di Mennea, ma sul traguardo è la keniana che vince, con l’italiana appena dietro di tanto così: 10 centesimi, una spanna. L’incredibile è successo: un’italiana, un’europea sul podio di una distanza “africana”. Il dominio è stato spezzato, c’è un’azzurra sul podio olimpico nelle lunghe distanze dopo il bronzo di Roberta Brunet nei 5000 di Atlanta ’96. C’è il nuovo record italiano, 30’43”35, ma soprattutto c’è la sensazione che a Los Angeles 2028 ci sarà la rivincita.


Andrew Howe Mondiali Mondiali salto in lungo

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Alexander Hassenstein//Getty Images

L’urlo di Andrew terrorizza l’Oriente! È la versione sportiva del film della finale di salto in lungo di Andrew Howe andata in scena al Nagai Stadium di Osaka, in Giappone nel 2007. Tensione, emozioni, esaltazione, delusione, gioia. C’è tutto questo in quella gara, ma nessun regista l’aveva programmato. Neppure che la gara si svolgesse il 30 agosto, stesso giorno della finale stellare Powell-Lewis ai Mondiali di Tokyo nel 1991. I due sono seduti in tribuna a Osaka. In pedana invece ci sono il campione olimpico e mondiale Dwight Phillips, il sudafricano Godfrey Mokoena, il panamense Irving Saladino, il giamaicano James Beckford, il tedesco Christian Reif.

La gara di Andrew Howe è tutta in salita: nullo d’apertura, 8.13, nullo, 8.12, 8.20. Al sesto e ultimo salto è quarto, in testa c’è Saladino con 8.46. A questo punto, il film accelera. Con tutta la disperazione del campione, Andrew Howe salta, lascia 6 cm alla pedana ma atterra a 8.47. Lo stadio applaude, lui esplode, qualcuno in tribuna impazzisce. È record italiano, Howe lo grida al mondo nella telecamera, salta e urla. Mamma René Felton è incredula, non sa se ridere o piangere. Quella misura l’aveva sognata, se l’era scritta sul diario.

È tutto vero. Manca un solo salto, quello del detronizzato Saladino. Il tempo ora si dilata perché in mezzo c’è la premiazione dei 400 ostacoli donne. Che tensione, che tensione. Non c’è solo Howe che non riesce a stare fermo. Intanto il panamense ha recuperato le energie fisiche e mentali, ma ha un solo salto per prendersi quell’oro che sentiva già suo. Rincorsa, salto, sabbia. La misura è 8.57, irraggiungibile. Le parti si invertono, Andrew Howe cede il titolo di campione del mondo che si era tenuto per 5 minuti. Festa a metà, ma sempre festa. Resterà la sua più grande impresa.


Andrea Lalli Europei di cross

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C’è stato un tempo, erano gli anni ’80 del secolo scorso, in cui ci si rammaricava del fatto che i nostri top runner, leggi Alberto Cova e Francesco Panetta, non avessero a disposizione un campionato europeo per primeggiare anche nella corsa campestre. Già allora il Mondiale di cross parlava africano. Nel dicembre del 1994 iniziò però la storia degli Europei di cross. Ora che c’era la gara però, gli azzurri non erano più i leader del vecchio continente.

Almeno fino all’arrivo di Andrea Lalli, molisano compatto ma estremamente a suo agio tra i prati, con due caviglie solide pronte a rispondere su ogni terreno. A 19 anni, nel 2006 conquista il titolo europeo juniores sui prati di casa, quelli del Campaccio di San Giorgio su Legnano. Due anni dopo, nel 2008, a Bruxelles conquista l’europeo tra gli under 23. Non c’è due senza tre si dice: ora l’obiettivo è chiudere il triplete con la vittoria tra gli assoluti. Affare complesso, nessuno ci era mai riuscito prima.

Nel 2009 è 18° a Dublino, nel 2010 è 6° ad Albufeira, nel 2011 in Slovenia non c’è, deve recuperare dopo un’operazione ai tendini. C’è però l’anno dopo, il 9 dicembre 2012 a Szentendre, a 20 km da Budapest, capitale dell’Ungheria. Stavolta tutto va per il verso giusto, anche se non era facile da pronosticare. Percorso coperto di neve dall’inizio alla fine, temperature sotto lo zero da far gelare anche i sogni. Non quelli di Andrea Lalli, che fa gara di testa dall’inizio alla fine, scava un vantaggio da fuga al Tour de France, saluta, ringrazia e finisce con il tricolore al collo. Alla fine lascia a 10 secondi il francese Hassan Chahdi e a 12 Daniele Meucci, per un podio debordante d’azzurro. Non poteva esserci conclusione migliore per l’inseguimento europeo di Andrea Lalli, fino al 2024, quando è stato imitato da Nadia Battocletti.


Gianmarco Tamberi Mondiali salto in alto

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Cosa distingue il campione dal campionissimo? Il primo ha vinto tanto, il secondo ha vinto tutto. Il giorno dell’incoronazione di Gianmarco Tamberi è martedì 22 agosto 2023, la serata della proclamazione del nuovo re del salto in alto. Lo scenario è la pedana dello stadio di Budapest, quello nuovo di zecca costruito nel quartiere di Ferencvàros, mentre fuori scorre placido il Danubio. Se sfumiamo dal blu all’azzurro, allora Tamberi è l’uomo giusto nel posto giusto.

Dopo il titolo olimpico di Tokyo, una nuova ossessione si è impadronita del primatista italiano: completare la collezione di medaglie d’oro. In bacheca ci sono già quelle dei campionati Europei (2019) e Mondiali (2016) indoor, quelle degli Europei (2016 e 2022) e delle Olimpiadi (2021), ora manca solo quella iridata. Per lei, si è preparato come non mai insieme al suo nuovo coach Giulio Ciotti. Gli avversari più pericolosi sono Mutaz Barshim, compagno d’oro a Tokyo, gli americani JuVaughn Harrison e Shelby Mcewen, il tedesco Tobyas Potye, il coreano Sanghyeok Woo. Il salto in alto è però specialità imprevedibile come un giro di roulette, a ogni turno può succedere di tutto. Woo esce dai pretendenti a 2,29 e a 2,33 inizia il gioco delle medaglie.

Al primo salto superano l’asticella Tamberi, Harrison, Barshim e il cubano Zayas che fa il personale. Quando si sale a 2,36 Harrison è in testa: zero errori per lui, mentre Tamberi ha scioccamente sbagliato il primo salto alla misura di entrata di 2,25. Quella leggerezza è pesantissima e rischia di complicare tutto. Bisogna ribaltare la situazione. In stagione aveva saltato al massimo 2,34 ma qui Gimbo tira fuori il salto perfetto e supera i 2,36 al primo tentativo. Harrison lo fa al secondo, Barshim e Zayas nemmeno al terzo. È sfida a due, ma a parti invertite. A 2,38 Tamberi è primo e Harrison secondo. Gimbo fa due errori, l’americano sbaglia i suoi tre salti ed è fuori. Tamberi ha vinto, lo stadio esplode di gioia. Il mondo ha un nuovo campione, il salto in alto un nuovo campionissimo, Gianmarco Tamberi. Nessuno era mai riuscito a vincere tutte le corone delle specialità, ma lui sì. Onore al nuovo re.